‘Malintesi’, Paolo Apolito porta in scena le ‘ragioni’ del suprematismo

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Provocherà certamente una profonda riflessione lo spettacolo “Malintesi – L’occidente e gli altri” ideato e messo in scena dal noto antropologo Paolo Apolito.

Uno spaccato su origini e finalità del ‘suprematismo’ che attraversa i secoli e le coscienze, più o meno indottrinate da teologia, filosofia, scienza, psicologia.

La rappresentazione di questa ‘Storia tragica in forma comica’ messa in scena dal professore e da Alessandro Tedesco e Giuseppe Falivene con la partecipazione di Donato Benincasa (produzione ‘Antropologo a Domicilio’), sarà portata sul palco del Piccolo Teatro Porta Catena alle ore 19,30 di domenica 12 ottobre.

La presentazione di Paolo Apolito – da leggere tutta d’un fiato – è una introspezione sulle ragioni che interrogano l’autore.

Egli afferma: «Nel film ‘Crimini e misfatti’ di Woody Allen, c’è una battuta fulminante: ‘comedy is tragedy plus time’, che traduco a modo mio ‘la comicità è tragedia più tempo’, e di cui una volta ebbi conferma in me stesso. Fu quando stavo preparando una lezione-spettacolo per i miei studenti, e mi trovai a mettere nello stesso quadro sintetico la tragedia dei razzismi e suprematismi con cui l’Occidente ha alimentato per secoli il suo complesso di superiorità nei confronti degli altri. ‘Ma non è possibile!’, mi dicevo, e paradossalmente mi veniva da ridere, ‘non è possibile!’ continuavo a dirmi. E trattenevo la risata, perché me ne vergognavo quasi. Risata grottesca, poiché grottesco era il quadro che mi trovavo davanti.

Dopo tanti anni ho deciso di riportare in scena questa lezione facendola spettacolo, perché ne sento una imprevista attualità.

Quando Colombo ‘scoprì’ il nuovo continente, che non era nuovo per niente poiché era abitatissimo, cominciò una trafila di malintesi, fraintendimenti e opportunismi che dura fino ai nostri giorni: da Colombo a Trump – cioè a un rappresentante coriaceo del peggio dell’ideologia suprematista occidentale – che ha deciso che per governare Gaza dopo l’agognata fine del massacro genocidiario, e il ritorno a casa degli ostaggi israeliani superstiti, ci sta bene Tony Blair. Sì, proprio lui, che oltre ad aver avallato gli eccidi della guerra del Golfo di Bush figlio, è promoter di affari petroliferi in Medio oriente.

In questa Lettera (e nello spettacolo), in sintesi estrema riprovo a mettere tutto nello stesso quadro. Semplificando per necessità. Qualcuno può rimproverarmi di non tener conto delle articolazioni dei dibattiti teologici, filosofici, scientifici che ci furono, e che mostrerebbero una complessità che qui trascuro. Ma l’unico modo che ho di presentare in un quadro sintetico l’insieme è di semplificarlo. Solo così appaiono chiari in un solo colpo d’occhio la serie dei terribili malintesi che alimentarono il pensiero occidentale e oggi alimentano il senso comune para-razzista. Poi si potranno fare tutti gli approfondimenti che si desiderano, ma vediamo prima il quadro d’insieme.

Ai tempi di Colombo, nella chiave teologica dominante, ci si chiese se gli indios fossero discendenti di Adamo o un’altra specie, cioè se avessero un’anima o fossero simili alle bestie (“homuncoli”). Papa Paolo III sciolse i dubbi: dichiarò nell’enciclica “Sublimis Deus” del 1537 che gli indios l’anima ce l’avevano e che dunque non potevano esser ridotti in schiavitù. Di conseguenza i conquistadores avrebbero potuto tranquillamente continuare a togliere loro tutte le terre e le ricchezze, ma non ridurli in schiavitù. Servi sì, schiavi no. Nessun problema però per lavoratori gratis, perché c’era l’Africa, un continente intero di discendenti di Cam, il figlio di Noè che era stato maledetto dal padre insieme a tutta la sua discendenza, e che potevano ben essere ridotti in schiavitù. Quanti furono gli schiavi neri portati via dall’Africa. Dieci? Dodici milioni? E quanti indios morirono dopo lo sbarco di Colombo? Cioè quante decine di milioni? Mi limito all’isola del suo primo approdo, Hispaniola, che degli otto milioni di abitanti, vent’anni dopo contava solo qualche centinaio di sopravvissuti. A proposito di genocidi.

Uno, due secoli dopo, la centralità della teologia che aveva la Bibbia come testo sacro di riferimento, fu sorpassata dalla nuova centralità, quella filosofica. E qui ci pensò il pensiero di Aristotele a risolvere la questione di chi fossero gli altri. Il filosofo greco aveva parlato di una schiavitù naturale di “colui che è soltanto abile a eseguire con la fatica del corpo” e per questo “è inferiore, e naturalmente schiavo”. Per analogia l’idea fu adattata in parte agli indios, e soprattutto agli Africani. Non era più la Bibbia che decretava la loro inferiorità, ma la filosofia.

Ma già dal ‘700 la chiave filosofica comincia a uscire di scena, sostituita pienamente da quella scientifica. La scena viene allora occupata da una serie di tragicomiche invenzioni dell’antropologia fisica e degli scienziati della razza (dalla frenologia alla craniometria), mentre la nascente antropologia culturale non riesce a evitare il dominante pregiudizio etnocentrico. Con presunte scoperte scientifiche viene confermata in un altro linguaggio, appunto quello scientifico, la superiorità bianca occidentale. Nel frattempo il colonialismo, già nato subito dopo lo sbarco di Colombo, passa di mano dalla Spagna e Portogallo alla Gran Bretagna e agli altri paesi del Nord Europa, e ne nasce un nuovo ordine mondiale basato sul dominio imperiale dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, al quale serviva l’ideologia della superiorità occidentale, qualunque essa fosse.

Quando nel Novecento i pregiudizi razzisti delle scienze biologiche dell’Ottocento escono di scena, sono pronti a subentrare i nuovi pregiudizi della psicologia dei test di intelligenza, che provano ‘scientificamente’ e “incontrovertibilmente” cosa? Ovviamente che gli europei del nord sono superiori, mentre tutte le altre “razze” si distribuiscono giù, in una scala che vede agli ultimi posti ovviamente gli africani. Robert Yerkes, psicologo dell’università di Harvard, sottopone al test gli immigrati in America, dopo averlo somministrato a 1.750.000 soldati americani che partivano per la I guerra mondiale. Lascio a chi mi legge indovinare chi erano i superiori e chi gli inferiori.

Ma come non ridere di fronte a questo scempio di intelligenze e di umanità? Ma davvero lo dite, davvero pretendete di dichiarare prima con la religione, poi con la filosofia, e poi con la scienza che Noi siamo superiori? Cambia la teoria ma non cambia l’idea malsana della superiorità biancoccidentale?

Non voglio mettere in conto che molte volte queste idee furono frutto di falsi (la craniometria di Samuel George Morton, per esempio, sbugiardata un secolo dopo) o comunque usate in chiara malafede. Mi limito alla buona fede. Perché ci fu, da parte di teologi e poi filosofi, scienziati, psicologi, antropologi e via dicendo. Ma il risultato non cambia: tutti insieme – fraudolenti e onesti – costruirono una delle più grandi reti di equivoci e malintesi che la storia umana abbia conosciuto.

Non sarebbe il caso che cominciassimo già nelle scuole a interrogarci su questi fatti? Non per costruirci un senso di colpa (“e che colpa abbiamo noi?”, giustamente diremmo), ma per smascherare il nuovo razzismo emergente e il suo subdolo servo, il senso comune?

Cos’altro pensava la maggioranza di noi se non che erano giuste le guerre per esportare la democrazia, ai tempi in cui i politici e i media mainstream ci bombardavano per convincerci della opportunità, anzi bontà di quelle? Oggi nessuno ne parla più. Perché? Perché ne vennero i massacri delle due guerre del Golfo, di Bush padre e Bush figlio. E ne venne l’insano intervento in Afghanistan con la vergognosa conclusione che ebbe.

Ma ora il senso comune torna a farsi servo del rigoglio delle ideologie suprematiste. Sottilmente, lentamente, il senso comune – che poi si trasforma in buon senso: “ma non li hai visti in televisione?” “ma non li vedi per le strade?” – torna a masticare l’idea che Loro sono diversi. O meglio, inferiori.

Il senso comune è pensiero-non-pensato, cioè pensiero che non ha bisogno di essere sostenuto da una riflessione, poiché appare ovvio, scontato, quasi naturale. E poi poiché lo pensano tutti.

Ciascuno di noi dovrebbe fare uno sforzo per leggere ai raggi x il proprio razzismo implicito nei numerosi stereotipi culturali che aleggiano nel nostro senso comune.

Non ho qui lo spazio per dilungarmi. Magari un’altra volta. In un’altra Lettera. Per ora mi limito a proporre a chi può, di venire ad assistere a questa lezione-spettacolo (o a propormi di organizzarne altre in altre sedi)».

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